Puzzillo, eccoci di nuovo qua, alle prese con due mostri sacri, ma che dico due
mostri sacri, due mostri e basta. Entrambi pesi massimi dell’aliena categoria
dei cooperativi, quei giochi che ci si gioca perchè “dai, bello, almeno si
vince tutti” e poi alla fine si viene soverchiati dai bachi del gioco e si
perde non solo la partita, ma anche una serata intera in cui si poteva fare
qualcosa di meglio come, che so, iniziare a fumare.
Arkham Horror si fa avanti, lento emaestoso come un Grande Antico, sentendo tutto il peso di un design anni ’80
riarrangiato e rimaneggiato più volte, e soprattutto sentendo tutto il peso di
un blocco di meccaniche hack ‘n’ slash che con Lovecraft c’entrano quanto un
bue muschiato con l’aromaterapia.
baldanzoso come Lancelot du Lac, con l’aria un po’ snob tipica dei francesi,
sbrodolando sull’avversario un campionario assai nutrito di parole forbite e
ricercate, un manciata di miniature e tante, tante buone intenzioni destinate a
finire malissimo.
avanti sbattendo in faccia all’avversario un carico di meccaniche che, fra
numero di regole e sotto-regole, e meccanismi di gioco che alzano il livello di
fattore fortuna, rischia seriamente di far venire un infarto al più saldo dei
german gamers. E questo capita solo leggendo il setup, che finisce a pagina 5,
cioè dove in molti altri giochi trovate la frase “fine del gioco e conteggio
dei punti”.
provano neanche a disilluderci: pesca di tessere dal sacchetto, pesca di carte,
dadi per combattere, dadi per risolvere le carte che pescate, poteri variabili,
movimento a punti. La Tombola a confronto sembra Quarto.
si presenta con un set di regole davvero quasi originali. Anche se le meccaniche di
base sono molto lineari (collezione oggetti, gestione carte, “vai qui, gioca
lì”) il sistema di Quest è, in potenza, davvero carino, soprattutto se
paragonato al “muovi-tira-pesca-tira-prendi-tira-muori” di Arkham Horror.
Cathala\Laget si perde sul finale, delegando la principale meccanica di
risoluzione delle missioni alla Scala Quaranta.
tre due, qualcuno ha da attaccarci una coppia di tre?”
sono saltati sulla sedia pronti a percuotermi le ditine con una verga di
frassino. “Non si può! Bisogna parlare come i cavalieri di Artù! Bisogna fare
le cose per bene e imitare i prodi guerrieri di Camelot!”
troppo facile, che facciamo? Imponiamo ai giocatori di parlare come dei
deficienti, così vediamo quale formula assurda si inventeranno per dire “metti
lì delle carte da 3” (tipo: “Vi prego,
solerti compagni di mille pugne, abbiate la compiacenza di inviare i vostri
valorosi soldati là dove ne abbisogno di persona… Ecco proprio lì, ma non
mandatene troppi, e neanche troppo pochi, diciamo, ecco, proprio una via
mediana, se possibile…”).
volto a tappare qualche buco, il flavour arturiano si sente abbastanza. Il che
non si può dire del tema del gioco avversario.
pompose dell’avversario con la peggior distorsione di un tema intrigante che io
abbia mai visto. L’orrore serpeggiante, accennato e misterioso di Lovecraft,
quello che fa impazzire i professori e suicidare i pittori, in Arkham Horror si
traduce in un gruppo di invasati che, a suon di incantesimi, granate,
mitragliatori e alleati improbabili gironzolano per la città facendo saltare in
aria mostri vari e poi, non paghi, concludono la notte brava prendendo a calci
nel culo un Grande Antico. Ebbene, cari i miei Launius e Wilson, mi duole
informarvi che questo non è Lovecraft. Questa è la visione di Lovecraft che
potrebbe avere una meteorina del TG4 se a spiegarle i miti di Cthulhu fosse stato
un ragazzetto cresciuto giocando a Doom 3, uno di quelli così privi di senso
della realtà che, cercando di farle capire quanto è figo sparare con il BFG
9000, si scordasse pure di guardarle le tette.
in entrambi i casi, ma in Arkham Horror siamo ai limiti del criminale. L’ultima
volta che ho giocato, nei tempi morti di Arkham Horror abbiamo giocato un
torneo di Agricola. E qui si svela un mistero: perché ‘sti giochi a vederli
sono così fighi? Perché almeno avete qualcosa da guardare mentre aspettate il vostro turno.
quante volte durante una partita avete una sensazione di deja vu? Anche qui, la
lotta è dura. Ma Shadows over Camelot in questo caso ha la peggio: alla fine le
azioni sono davvero poche, tanto che la frase che ho sentito dire più spesso
giocando al gioco francese è “qualcosa è
cambiato in Matrix.”
prossimo. Veniamo infatti all’annoso problema del “leader”. Quel tizio,
odiosissimo, che – non importa a quale cooperativo stiate giocando – deve dire
a tutto e tutti cosa fare, perché e percome, facendo diventare l’esperienza di
gioco un suo show personale, una gara fra lui e il suo ego atta a dimostrare (a
chi non si sa) quanto lui sia figo. A parte il fatto che qualcuno dovrebbe
spiegargli che essere patologicamente bravo a un gioco da tavolo di solito
significa che agli occhi dei più non sei “figo”, ma “strano forte”, ecco, a parte
questo qualcuno dovrebbe anche dirgli che, sinceramente, ha sbriciolato le
palle con le sue manie di protagonismo… ma mi sto perdendo.
due capolavori assoluti risolvono la questione.
nel bel mezzo dei cavalieri di Artù un traditore.
il traditore. Che a livello di ambientazione ci sta come Aragorn che cede alle
avances di Eowyn e manda a ramengo il Signore degli Anelli per una sveltina.
Morgana, Mordred e Artù contro la Tavola Rotonda. Mi piace quando un tema
coerente viene rovinato da un’unica, mastodontica cazzata.
problema del leader: spesso il leader c’è comunque. E a volte è anche il
traditore. E a volte è anche Artù. Geniale.
ispirato (a un culturista che ha letto il colofon di un libro di uno scrittore
che mentre scriveva pensava) a Lovecraft, per risolvere il problema del leader
adotta la soluzione più maledettamente geniale che io abbia mai visto.
neanche.
Applauso.
Investigatori della Miskatonic University si fronteggiano nello scontro finale.
Se questo fosse un mondo giusto, arriverebbe Azathoth, Colui che Dimora negli
Abissi, e s’ingoierebbe tutta la comitiva.
spuntarla
non mi viene, bisognerà che la motivazione per cui a rimanere in piedi sia il
gioco francese la si trovi non nei suoi meriti, ma nei demeriti dello
sconfitto: Arkham Horror va infatti oltre ogni umana comprensione, oltre gli
incubi più profondi dei comuni mortali, tanto da superare la barriera fra
realtà e finzione, fra personaggio e giocatore, e facendo corrispondere ad ogni
perdita di sanità mentale del primo una perdita netta in voglia di vivere da
parte del secondo.
chiudo, in maniera anche un po’ amara, o anche agrodolce, nel senso che, voglio
dire, ma anche a tratti, ho perso il filo.
Ciao cosi, alla proscèn fuà.






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