Un’intervista in quattro parti quasi vera, di Albino Pedina
Disclaimer: Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è seppur di poco puramente casuale.
Nessun gamer, distributor, publisher, designer, developer, photoreporter, marketer, blogger, infotainer, journalaier, youtuber, onlyfanner, pornhubber è stato realmente maltrattato, a differenza della lingua italiana sul web e in particolare su questo sito.
PARTE II – SEGMENTO DI MERCATO
“Ehm, ok, certo. Dicevo… l’intervista. Lei è in giro da molto tempo vero?”
Mi guarda come un ricercatore che osserva un batterio su un vetrino, prima di rispondere. Stiamo andando alla grande.
“Sono in giro da quando il D20 si chiamava ancora ‘quel dado strano che usano i disadattati’, da quando il mondo del gioco da tavolo in Italia era un meraviglioso caos primordiale, fatto da svariate idee – talvolta buone, spesso del cazzo, ma comunque più o meno originali – e una brodaglia di passione e dilettantismo che faceva insieme allegria e tenerezza. Che poi è come definirei anche il Puzzillo degli esordi, sostituendo l’allegria con la maleducazione e la tenerezza con la rabbia.”
Si ferma un attimo, per arrotolare dei cubetti da 8mm dentro una carta di Magic.
“E poi cos’è successo?”, chiedo impaziente.
“Poi è arrivato il marketing. O, meglio, quello che di marketing avrebbe capito mia nonna lasciata mezz’ora da sola in un ascensore con Montemagno” risponde con calma accendendo quella specie di sigaretta, i cui fumi abbatterebbero un bufalo cafro adulto.
“Ricordo ancora quando gli editori si presentavano con biglietti da visita fronte-retro (da un lato ‘editore’, dall’altro ‘traslochi’ o ‘salumi e formaggi’ o qualsiasi altra attività tenesse davvero in piedi l’azienda) e scrivevano sui forum urlando in caps lock. Oggi no, oggi si sono evoluti. L’azienda è cresciuta, prospera e fa margini alti. Quella di traslochi, intendo.”
Il fumo acre riempie la stanza, rendendola ancora più scura.
“Per quella di giochi invece è più una questione di immagine, è tutto un rebrand, una moodboard, una visual identity. Post promozionali tutti uguali fatti con Canva, con più effetti speciali del live action di Biancaneve, ma ugualmente osceni a vedersi.
Sotto la patina della post-produzione e dei filtri instagram, però, è rimasto tutto il pathos e la capacità strategica del gruppo Whatsapp delle mamme della IV E e quella sensazione sgradevole che forse investire solo sui traslochi avrebbe avuto più senso.
C’è da dire che è già un miracolo se fra crisi delle materie prime, guerre e pandemie la gente ha ancora voglia di giocare. In effetti non sono sicurissimo che la voglia di giocare da tavolo sia aumentata così tanto, di sicuro è aumentato il numero di aspiranti autori di giochi” continua, cambiando apparentemente argomento. “Una volta gli autori arrivavano in fiera con lo zaino sfondato, tre prototipi in cartoncino e gli occhi da cerbiatto illuso. I più non sopravvivevano alle prime porte in faccia, ma avevano una certa dignità sotto tutti quei lividi.”
Mi pento della domanda “Beh, ma è un bene che gli autori siano molti di più, no?” mentre la sto facendo. Una nuvola passa sulla faccia del sole, e l’ombra cade sulla stanza mentre Mr. Black Pawn ringhia la sua risposta in mezzo alle volute di fumo nero.
“Se fossero ancora considerati autori, sì. Ma, se guardi bene, sono diventati altro. Sono un segmento di mercato. Un target. Un funnel. Gente a cui vendere corsi, consulenze, plastificatrici. Diavolo, perché vendere giochi, quando si possono vendere componenti per prototipi deluxe, pitch coaching, accessi ai contest, kit per la grafica, servizi di agenzia e iscrizioni a pseudo-sindacati a chi vuole fare l’autore? Se non altro, c’è coerenza: se il settore è pieno di fuffa, tanto vale pavimentare con la fuffa anche il sentiero per entrarci. Un tempo speravamo che un autore italiano diventasse il nuovo Reiner Knizia, oggi ci auguriamo che un editore non diventi il nuovo Maicol Pirozzi. O che lo diventi, almeno abbiamo qualcuno da prendere davvero per il culo.”
“Mi diceva il Puzzillo che non ti sono mai piaciuti, gli autori di giochi…” provo a punzecchiarlo. Pessima mossa.
“Ecco, adesso è importante che tu capisca che devi assolutamente e meticolosamente evitare di dire stronzate, sennò poi mi tocca azzerarti l’autostima e finisci appeso a una trave come l’ultimo blogger che ha provato a rompermi i coglioni,” mi ammonisce col tono calmo più minaccioso che io abbia mai sentito. “Non mi stanno sul cazzo gli autori di giochi, sto solo descrivendo quello che vedo. Dopo il boom di ‘aspiranti autori’ emersi durante la pandemia, ci siamo ritrovati con con un bacino inusualmente più grande del normale di ‘gente con un gioco e un sogno nel cassetto’, gente che spesso non sa neanche la differenza fra dado a sei facce e un dado da brodo e che ha come unico desiderio quello di bruciare ogni tappa per pubblicare. Non potendo usarli per le idee, molte aziende hanno deciso di trasformarli in target di mercato’. È la magia del capitalismo: se non sei utile come fornitore, lo sarai come cliente.”
Tossisco in modo abbastanza vistoso. “Scusi se la interrompo, ma non potremmo almeno aprire la finestra?”
“No. Vorresti aprirla per via del fumo?”
“Sì.”
“Allora no.”





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