Titolo: Hard Furry Pets
Anno: 2009
Ora, magari abbiamo esagerato, ma come si dice, attenti a quel che desiderate, potreste ottenerlo.
Lungi da noi essere (poco) sessisti, e senza dubbio la nostra morale riguardo il connubio tra donne e ludo è più che rivedibile, ma ciò di cui davvero non ci capacitiamo è perché mai le donne ce l’abbiano tanto con i giochi. Tanto quanto? Hard Furry Pets.
Una partecipazione femminile al cinquanta percento affidabile come un Bond argentino, là dove un gioco a otto mani è già più toccato di una mela dopo il passaggio delle temibili vecchiette da mercato.
L’idea del gioco è originale: copiare un gioco di successo usando un tema di forte richiamo, il che, applicato a Munchkin, ha l’effetto di una barzelletta ripetuta male. Questo perché purtroppo per essere paraculi non basta pensare di esserlo: troppo paraculo. Così, proprio mentre Munchkin sta alla ludica come una barzelletta sta alla comicità, Hard Furry Pets raggiunge le vette dello stile come solo un italiano sa fare.
A questo punto avrete capito che in questo gioco di carte “a chi raggiunge prima l’obiettivo collezionando carte che danno punti” (che in realtà ruba tanto da Chez Geek quanto da Munchkin), a farla da padrona è l’eleganza.
Il tema vive il protagonismo di pucciosi animaletti, intenti per metà a convertire indecise casalinghe a una vita da perverse dominatrici e per metà a redimerle in perfette mogliettine (profonda incongruenza tematica a parer mio, ma magari ho grosse pretese dalla vita di coppia); animaletti che inteneriscono l’ambientazione come i buchi di culo utilizzati da segnalini per il punteggio negativo, perché il genio non conosce censura, ma più spesso gli autori non conoscono il genio.
Ma ancora, i designer, succubi dell’eleganza come fosse una mistress obesa in shorts di jeans, scelgono di complicare il sistema di gioco aggiungendo una serie di variabili ed eccezioni in grado di incastrare una partita già dal primo turno. Cose come “Pesca una carta: se è una location puoi giocare, altrimenti fai quello che dice la carta e passa il turno senza giocare. Ripeti ogni turno.”, semplice e chiaro, come un rutto in faccia, ciò nonostante rimani lì a pensarci, perché sono cose che ci vuole un po’ a metabolizzare. Soprattutto dopo una pre-fase introduttiva del genere:
“In questa fase state per così dire “studiando” lal vostra Obsession attraverso il
buco della serratura.
Le carte sono appena state distribuite e il giocatore tiene la propria carta
Obsession coperta, in modo che gli altri giocatori non la possano vedere. Per
poter superare questa fase il giocatore deve riuscire a recuperare una carta
Key che appartenga al gruppo Key della propria Obsession e sia compatibile
con il ruolo del giocatore. Utilizzando una carta Key si ha il vantaggio
di non doverla scartare e la stessa resterà attaccata all’Obsession fino alla fine
del gioco, e quindi darà un bonus permanente.
In alternativa si può scartare dalla mano un valore in Panties o in carte
superiore o uguale al valore della carta della propria Obsession; in questo
modo però il personaggio non beneficerà di alcun bonus.
A questo punto il giocatore può mostrare la propria carta Obsession e passare
alla fase successiva.”
(Se no guarda gli altri giocare, così è pronto per dopo)
E questo sì, è quello che dovete sperare di riuscire a fare prima di poter sperare di pescare una location per poter sperare di pescare le carte giuste per voi nella speranza che gli altri non abbiano le carte giuste per voi né le carte giuste contro di voi.
Chi di speranza vive disperato muore.
In somma un gioco il cui equilibrio è inserito a caso tra la chiusura servita e il non giocare una carta fino a fine partita. Roba da preferire quattro incipit di partita consecutivi a Lupin III. Da Zenigata.
Ma non basta, ogni carta riporta almeno sei valori, oltre al punteggio in mutandine (moneta corrente, perché stiamo parlando di SESSO qui, chiaro? Che c’è, vi disturba la parola SESSO? Perché di questo si tratta, SESSO, semplice SESSO, SESSO con stile) e, soprattutto, oltre ad un testo esclusivo con effetti speciali che valgono spesso solo in casi particolari. Una scelta per rendere il gioco scorrevole come un pattino tra i brecciolini del regolamento e i chiodi della gestibilità, senza considerare i buchi di regolamento riguardo le situazioni specifiche (ossia tutte, considerata l’unicità delle carte).
E più, siccome “l’eleganza non è mai troppa”, come disse la canotta alla trippa, la componentistica nella scatola prevede, oltre ai suddetti buchi di culo (ricordate? SESSO! ma con simpatia), una plancetta per ciascun giocatore, sulla quale segnare i punteggi delle varie caratteristiche con dei tasselli la cui qualità è proporzionabile solo alla sproporzione degli stessi rispetto alla plancia: un colpo di genio artistico equiparabile alla scoperta della prospettiva. Nella culinaria.
Qualcuno potrà obiettare che si tratta comunque di uno (pseudo) party game, e che quindi può permettersi certe “mancanze”, ma qui l’unica mancanza è l’intelligenza, mentre del resto c’è eccesso, dalle regole ai componenti, dalle forzature sul tema a quelle sulle già provate meccaniche.
Il risultato finale è quello che viene scientificamente definito un “cafolavoro”, qualcosa di strettamente legato ad un filone culturale che contraddistingue la produttività artistica italiana nel mondo.
Schiacciati dalla innata esterofilia italiana però l’editore, Raven, ha preferito stampare il gioco con le carte in inglese.
Per quello, o nella speranza che i parenti non ne ricevessero mai una copia.





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